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Camminando nel buio con Stella Burns

Camminando nel buio con Stella Burns

Abbiamo incontrato Stella Burns dopo la presentazione romana del suo nuovo album Long Walks in the Dark uscito per Brutture Moderne: il live al RCCB Init di Roma è intenso, coinvolgente: il pubblico ha partecipato con grande trasporto viaggiando tra polverose atmosfere western dal sapore morriconiano fino agli omaggi a David Bowie. Un sound vissuto e sofferto quello del cantautore, polistrumentista, graphic artist, videomaker e space cowboy: il suo nuovo disco è proprio il racconto di anni non semplici e della strada percorsa per attraversarli.

Ciao e anzitutto grazie per essere qui con noi a Radio Città Aperta. Parlaci del tuo nuovo album “Long Walks In The Dark”: a sette anni da “Jukebox” cosa è cambiato?

Ciao Ludovica, grazie mille a te per l’invito.

Long Walks in the Dark ha avuto una lunga gestazione. Un po’ per quello che abbiamo vissuto tutti, i due anni della pandemia, e un po’ per alcuni lutti personali che hanno reso gli anni passati piuttosto pesanti.

La voglia di pubblicare queste canzoni non è mai venuta meno, ma ho dovuto fare i conti con la mia mancanza di energia.

Nonostante tutto è però un album ricco di positività e speranza. Sono ottimista per natura e l’esperienza del covid, che ho vissuto in prima persona in modo piuttosto significativo, mi ha dato una bella spinta a mettere in ordine le mie priorità.

L’album si apre con la canzone strumentale Amor, una specie di dichiarazione di intenti racchiusa nel titolo, e si chiude con una canzone che non avevo inizialmente previsto e che ho scritto di getto di ritorno dall’ospedale, We cannot decide, e che ho voluto inserire così come l’ho registrata in quei giorni, ancora con la polmonite e pochissime forze: non possiamo decidere quello che la natura ci riserverà e a maggior ragione dobbiamo cercare di vivere con pienezza ogni giorno dando valore ai nostri affetti. L’album è una specie di percorso a tappe e queste lunghe camminate nel buio sono solo un passaggio perché si arrivi al mattino dopo.

Da Jukebox Songs, che era un album registrato con gli amici (the Lonesome Rabbits) con i quali allora suonavo live il mio progetto, è cambiato molto. Uno di loro, Franco Volpi, amico con il quale ho condiviso quasi 25 anni di progetti e amicizia, è morto l’anno dopo l’uscita di quell’album. La sua perdita è stata uno degli stop emotivi di cui parlavo. Nel frattempo ho messo sempre più radici a Bologna, città in cui mi sono felicemente trasferito dopo aver vissuto tutta la vita a Livorno e ho cominciato a suonare con molti musicisti che mi hanno aiutato ad uscire da quell’empasse. Continuo a scrivere ed arrangiare nello stesso modo di allora ma la musica continua ad essere un gioco avventuroso che riserva sempre molte sorprese. Adesso ho una nuova band che mi accompagna: Lorenzo Mazzilli, Samuele Lambertini e Pino Dieni. Grandi amici e musicisti eccezionali. Devo dire che sono da sempre molto fortunato nel collaborare con musicisti di alto livello. Con loro le canzoni in concerto assumono una nuova energia.

Nel mezzo c’è stato l’EP “I’m Deranged” dedicato a David Bowie: cosa ti ha portato a scegliere Bowie e quale dei suoi vari periodi artistici senti più vicino a te?

Bowie è da sempre il mio faro. E’ stato fondamentale per me non solo come musicista ma per l’idea che rappresenta di evoluzione e profondità artistica e umana che mi ha sempre molto affascinato.

Confrontarmi con il suo repertorio e la sua voce non è stata tra le cose più semplici che abbia fatto. L’unico modo per affrontare il materiale di qualcun altro senza che sembri una pallida imitazione è portare tutto nel proprio territorio, contaminando l’altrui creatività con la propria. E’ quello che ho cercato di fare scegliendo canzoni che adoro, ma che non sono tra le più note.

Feci una cosa simile anni fa, con il mio gruppo Hollowblue. Nel 2008 registrammo Letter to Hermione e fu molto emozionante veder pubblicata una pagina di elogi sul sito ufficiale di Bowie.

Quando parlo di Bowie come mio riferimento, mi rendo conto che nella mia musica la sua influenza non sia molto evidente. Questo mini album è quindi una semplice dichiarazione, un volere affermare nei fatti quanto lui sia stato e sia tuttora importante per me.

Difficile scegliere un solo periodo preferito. Tutti i suoi album, anche quelli più commerciali, contengono delle gemme. Comunque la trilogia berlinese è quella che musicalmente, e anche esteticamente, ha avuto un maggiore impatto su di me.

Tra gli ospiti di questo tuo nuovo lavoro troviamo l’australiano Mick Harvey: ci racconti come è andata la collaborazione con lui?

Sono un grande fan del suo lavoro, di come ha sempre lavorato con gli arrangiamenti (ad esempio negli album con Nick Cave) e in particolare anche di come suona la batteria.

Anni fa in studio mi portavo sempre dietro il suo primo album di cover di Serge Gainsbourg come esempio di suono e produzione.

Qualche anno fa ho avuto modo di incontrarlo di persona dopo un suo concerto a Livorno. Lui mi ha preso in simpatia e abbiamo cominciato a parlare di tutto, fino a notte fonda.

Da lì in poi ci siamo sempre tenuti in contatto via mail, incontrandoci saltuariamente nei suoi tour in Italia.

Per anni non gli ho chiesto di collaborare perché mi sembrava di inquinare in qualche modo questa strana amicizia a distanza.

Ma, come raccontavo prima, nel marzo del 2020 sono stato uno dei primi ad ammalarsi di Covid qui a Bologna. 59 giorni e la sensazione che non sarei più tornato a casa. La mia prospettiva sulle cose è un po’ cambiata da allora e mi sono detto che non c’era motivo di aspettare. In fondo semplicemente poteva non piacergli la mia proposta e non sarebbe accaduto nulla di che. Lui invece appena ha sentito la bozza della canzone My Heart is a Jungle, una canzone che nel momento in cui l’avevo scritta mi aveva fatto venire in mente proprio le sue cose, mi ha risposto entusiasta e dopo pochissimi giorni mi ha mandato la sua traccia vocale mettendosi completamente al servizio della canzone.

Un altro ospite – che non è purtroppo più tra noi – è Dan Fante, figlio del grande scrittore italoamericano John Fante. La sua voce era già stata presente in un brano degli Hollowblue la tua band: qual è il tuo rapporto con la letteratura americana?

Con Dan ho vissuto delle bellissime esperienze in giro per l’Italia quando con gli Hollowblue proponevamo insieme dei concerti di musica e poesia.

Mi ha raccontato così tante cose… è stato un privilegio conoscerlo e condividere con lui tempo e arte. C’era l’idea di trarre un disco intero da quell’esperienza, per cui ho molte sue voci registrate archiviate nel mio hard disk. Spero di riuscire a portarlo a termine prima poi, proprio con gli Hollowblue che non sono finiti come progetto, ma sono solo in stand by.

Per rispondere alla tua domanda, sono stato un avido lettore. Parlo al passato perché adesso mi è diventato un po’ più difficile trovare tempo e concentrazione.

Comunque sono molto legato ad alcuni autori, Dan Fante ovviamente, di cui ho letto quasi tutto e che mi ha regalato a sorpresa la mia presenza con alcuni riferimenti nel suo ultimo romanzo, Joe R. Lansdale, Flannery O’Connor, Philip Dick. Ma ho letto anche diversi autori inglesi e italiani. Ho adorato Dino Buzzati ad esempio.

stella

L’atmosfera dei tuoi brani è molto cinematografica: quali sono i tuoi registi preferiti? Ti piacerebbe comporre colonne sonore? Se sì, per quale regista? (del presente o del passato, no problem!)

Pensa che tra le mie aspirazioni adolescenziali c’era quella di fare il regista. Il cinema è un’arte che mi nutre moltissimo. Lo ha sempre fatto, grazie anche a mia mamma che mi ha abituato sin da piccolo, sia al cinema che al teatro. Tra i miei registi preferiti c’è sicuramente David Lynch… tra l’altro anche per il modo in cui usa il suono, ma anche Billy Wilder, Ingmar Bergman, Martin Scorsese, Roman Polański. Sì, mi piacerebbe molto comporre colonne sonore. La musica per me è un flusso continuo di immagini.

Tra i registi con cui mi piacerebbe lavorare ti dico forse il più scontato per il tipo di musica che faccio: David Lynch ma anche I fratelli Coen non mi dispiacerebbero.

Hai suonato recentemente a Roma in un house concert e poi qualche settimana dopo al RCCB Init: come ti sei trovato nella Capitale?

Non suonavo a Roma da anni e ci tenevo molto a questi due concerti. Come capita talvolta in queste occasioni accade proprio quello che non vorresti… all’house concert sono arrivato con una laringite acuta e quasi completamente afono. Il più grosso incubo per un cantante. Suonavo da solo, senza band, accompagnato da chitarra e registratore a bobine. La casa era piena di persone che si erano prenotate e ho dovuto affrontare la situazione in qualche modo. Ho cercato di cantare quasi parlando, abbassando di un’ottava le canzoni quando possibile e raccontando molto. Le persone erano attentissime, ho sentito un grande calore e partecipazione. Alla fine è stato uno dei più bei concerti che abbia mai fatto. Non certo per la performance ma proprio per tutte le emozioni messe in campo e condivise con naturalezza, nonostante la mia storica timidezza. Molto bella l’esperienza anche al RCCB Init. Lì ero con tutta la band e ci siamo divertiti molto. Una parte del pubblico dell’house concert è tornato a rivedermi e si sono create delle belle connessioni e amicizie.
Spero di tornare a Roma presto!

stellaburns

Ci sono nuovi progetti all’orizzonte?

Sì e spero di pubblicarli in tempi non troppo lunghi. Entro l’anno vorrei far uscire un EP di canzoni rimaste fuori da Long Walks in the Dark ed è in corso anche un disco a 4 mani con Swanz the Lonely Cat (noto anche per essere il cantante dei torinesi Dead Cat in a Bag), un album al quale tengo molto. A breve poi annuncerò ufficialmente la nascita di Love and Thunder, un collettivo musicale che ho fondato qualche mese fa. Mette insieme molti musicisti e anche illustratori e video maker. L’obiettivo è quello di presentare una scena che nonostante le distanze geografiche intreccia collaborazioni, ha un respiro internazionale e una visione sempre molto personale. Il primo progetto al quale stiamo lavorando è un tributo ad un cantautore americano che ha avuto una vita molto difficile ed è sempre rimasto nell’ombra rispetto ad altri nomi, nonostante il suo lavoro abbia cambiato la faccia in modo indelebile del folk britannico. La lista dei partecipanti è veramente impressionante e ha al suo interno alcuni grossi nomi che hanno subito aderito con entusiasmo al progetto.

Poi vorrei rimetter mano al quarto album degli Hollowblue, rimasto per troppo tempo nel cassetto.
Infine cito il disco di Tommaso Varisco, These Gloves, uscito nello stesso periodo in cui è uscito Long Walks in the Dark, e in cui sono davvero contento di aver suonato un po’ di chitarre elettriche. Con me in quell’album anche i già citati Swanz the Lonely Cat e il bassista nel mio gruppo Lorenzo Mazzilli (già Giant Undertow e The Johnny Clash Project) a riprova di come l’amicizia e la collaborazione confluiscano in musica e dischi che speriamo di far ascoltare a più persone possibili.

Intervista di Ludovica Valori

Pubblicato il: 22/04/2024 da Ludovica Valori