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Per la Confindustria tedesca è “la crisi più profonda dal 1949”. Il modello economico europeo è fallito

Per la Confindustria tedesca è “la crisi più profonda dal 1949”. Il modello economico europeo è fallito

Intervista shock del presidente della BDI, Peter Leibinger, alla Süddeutsche Zeitung: non è una fase ciclica, quello che si rischia è “la deindustrializzazione irreversibile”. Gli industriali tedeschi mettono sotto accusa la concorrenza cinese, i costi energetici e la burocrazia che vanifica gli investimenti del governo.

di Giacomo Simoncelli

“È la crisi più profonda dal 1949”. Non usa giri di parole Peter Leibinger, presidente della BDI (la Confindustria tedesca), per descrivere lo stato di salute della prima economia d’Europa. In una lunga e preoccupata intervista concessa alla Süddeutsche Zeitung, il numero uno degli industriali tedeschi traccia un quadro tragico per il proprio paese, che si trova di fronte a una crisi che non è più ciclica, ma segnala invece un cedimento strutturale che rischia di diventare irreversibile.

I numeri del declino

Le cifre sembrano dare ragione a Leibinger. La crescita economica della Germania è inchiodata: il Consiglio degli esperti economici stima una chiusura d’anno con un PIL tra lo 0 e il +0,1%. Ancora più allarmante è la situazione del mercato del lavoro: i disoccupati hanno raggiunto quota tre milioni (tasso al 6,3%), con il solo settore manifatturiero che ha perso oltre 500 mila posti dai picchi pre-Covid.

Le aziende sono profondamente deluse e il timore concreto è quello di una “deindustrializzazione irreversibile”: costi energetici alle stelle dopo l’abbandono del gas russo, e un regime fiscale poco favorevole sta spingendo sempre più imprese a fare quello che siamo abituati a vedere da decenni: delocalizzare e tagliare gli investimenti. La differenza è che oggi il modello mercantilista è arrivato al capolinea, e la UE deve trovare il modo di riattivare il proprio manifatturiero per competete con grandi attori globali in uno scenario di maggiore frammentazione del mercato mondiale.

La Cina e il ‘furto’ del modello tedesco

Leibinger accusa la Cina, perché avrebbe “copiato il nostro modello”. In sostanza, da Berlino vogliono accusare il Dragone di aver sviluppato una propria industria, invece di aver continuato ad essere dipendente dall’estero. Per vent’anni, la Germania ha creduto in una divisione del lavoro immutabile: il paese europeo forniva tecnologia e macchinari, Pechino metteva manodopera e mercato di massa.

Oggi la Cina non ha più bisogno dei macchinari tedeschi, perché se li produce e li vende pure, diventando un concorrente diretto nei settori ad alto valore aggiunto, come la chimica, i macchinari industriali e le frontiere dell’automotive. Proprio le vetture sono il simbolo di questo declino: colossi come Volkswagen, in ritardo sull’innovazione digitale e sulle batterie, sono costretti a piani di ristrutturazione impensabili fino a pochi anni fa per fronteggiare la concorrenza cinese.

La revisione degli obiettivi europei sulle emissioni

Proprio sulla spina dorsale dell’industria europea, l’automotive, la Commissione UE ha deciso di fare un passo indietro sugli obiettivi di emissione. Queste non dovranno essere abbattute, entro il 2035, del 100%, ma del 90%. Il margine del 10%, che potrà essere sfruttato con la commercializzazione di veicoli con motore a combustione interna così come di quelli mild hybrid, plug-in e range extender, può sembrare poco, ma non lo è. Il Commissario ai Trasporti Apostolos Tzitzikōstas ha ammesso che questa flessibilità si tradurrà nel mantenimento del 30-35% di auto non completamente elettriche.

Questo margine sulle emissioni dovrà essere compensato in sostanza in due modi: i costruttori dovranno utilizzare acciaio a basso contenuto di carbonio prodotto rigorosamente nell’UE, o dovranno sfornare veicoli alimentati da carburanti sostenibili (biocarburanti e sintetici). Questa mossa rivela il vero intento politico del pacchetto annunciato da Bruxelles: creare un mercato protetto per alcune produzioni europeo, e soprattutto l’acciaio, obbligando le filiere a integrarsi nel perimetro del Made in UE.

Riattivare il complesso industriale civile in favore di quello militare

Se il cambio dei target sulle emissioni di certo non aiuterà l’ambiente, in realtà non darà una grande mano nemmeno all’automotive. Nel settore, i produttori europei hanno perso il treno dell’innovazione tempo fa, e una revisione del genere può servire soltanto a farli sopravvivere su segmenti commerciali che dovrebbero diventare presto obsoleti. In compenso, essi potrebbero diventare la sponda migliore per il rinnovamento del complesso militare-industriale europeo, che avrà certamente grande bisogno di acciaio, ad esempio.

Non è un caso che delle promesse e degli stanziamenti del cancelliere Merz per ora si siano largamente avvantaggiate società degli armamenti come Rheinmetall o Hensoldt. E ugualmente non è un caso che Volkswagen e Renault, nell’ultimo anno, abbiano annunciato di essere pronte a convertire alcune loro produzioni verso un indirizzo militare. La classe dirigente europea vuole, insomma, uscire dalla crisi col riarmo. Abbiamo purtroppo già visto lo scorso secolo, nelle due tragiche carneficine mondiali, dove porta questo tipo di politiche.

Pubblicato il: 20/12/2025 da Giacomo Simoncelli