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Il dipartimento israeliano della “guerra legale”. Mediapart svela le ingerenze di Tel Aviv nella giustizia internazionale

Il dipartimento israeliano della “guerra legale”. Mediapart svela le ingerenze di Tel Aviv nella giustizia internazionale

Insieme ad altri otto media europei, la rivista francese Mediapart ha rivelato che, negli ultimi 15 anni, un dipartimento israeliano finalizzato alla “guerra legale” ha influenzato procedimenti giudiziari in vari paesi, e ha anche ritardato le indagini della Corte Penale Internazionale. Un danno profondo al diritto internazionale, ma anche un’ingerenza che, nel caso di Israele, sembra non turbare i governanti europei.

di Giacomo Simoncelli

A partire da una fuga di notizie quantificate in oltre due milioni di mail del Ministero della Giustizia israeliano, la rivista indipendente francese Mediapart e altri otto media europei, in coordinamento attraverso la rete European Investigative Collaborations (EIC), hanno svelato le iniziative che il governo di Tel Aviv ha messo in atto per anni, con lo scopo di evitare incriminazioni o di sostenere atti che favorivano la perpetuazione delle violazioni del diritto internazionale.

I documenti coprono un arco temporale che va dal 2009 al 2023 (dunque un periodo che racconta una storia ben precedente al 7 ottobre 2023) e svelano l’esistenza di una vera e propria “guerra legale” combattuta da Israele per proteggere i propri leader politici e militari da qualsiasi procedimento giudiziario all’estero.

Tutto ha inizio nel 2009, con il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu e la sua agenda di espansione coloniale in Cisgiordania. Consapevole che tali politiche avrebbero esposto Israele ai rischi insiti nella giurisdizione universale – il principio che permette ai tribunali stranieri di giudicare crimini gravi commessi anche all’estero – il governo ha deciso di correre ai ripari. Nel 2010 viene istituito il dipartimento agli “affari speciali”, guidato da ex giuristi militari.

Una delle funzioni primarie del dipartimento è stata quella di agire come un radar preventivo. I documenti rivelano come l’unità abbia valutato sistematicamente i rischi di arresto per funzionari civili e militari in viaggio verso l’Europa. In numerose occasioni, personalità politiche di primo piano sono state costrette ad annullare le loro visite nel Vecchio Continente per evitare la notifica di mandati d’arresto o interrogatori per crimini di guerra.

Ma la strategia non è stata solo difensiva. In un documento classificato del 2020, il dipartimento rivendica che, grazie al suo operato, si sono evitati vari procedimenti, e si è ottenuta l’archiviazione di decine di casi penali e civili in tutto il mondo. Un lavoro svolto quasi interamente nell’ombra, esercitando pressioni sulle giurisdizioni occidentali affinché facessero cadere le accuse contro aziende fornitrici dell’esercito o ufficiali coinvolti in operazioni militari.

Mediapart riporta alcuni casi. Quello olandese è sicuramente esemplificativo della capacità di quegli uffici di manipolare i procedimenti giudiziari. Uno dei cani addestrati che l’azienda Four Winds forniva all’esercito israeliano attaccò un palestinese di appena 16 anni nel 2014. L’avvocata della vittima, Liesbeth Zegveld, fece causa all’azienda chiedendo un risarcimento e il blocco delle esportazioni di cani verso Israele.

Per evitare un precedente pericoloso, il Ministero della Giustizia israeliano assunse segretamente un avvocato olandese, Robbert de Bree, incaricandolo di difendere l’azienda ma di fatto tutelando gli interessi dello Stato sionista. L’avvocata del ragazzo, credendo di negoziare con la società privata, accettò il ritiro delle accuse per un risarcimento di 20.000 euro. Ciò che ignorava è che i soldi non provenivano dall’azienda, ma direttamente dalle casse del governo israeliano, versati in segreto per chiudere il caso senza imporre il divieto di esportazione.

Il caso che però suscita maggiore attenzione è di certo quello riguardante la Corte Penale Internazionale dell’Aja, anche per la recente conferma del mandato di cattura nei confronti di Netanyahu. Anche in questo caso, la vicenda risale a oltre quindici anni fa. Dopo l’operazione “Piombo Fuso” (2008-2009), l’Autorità Palestinese aveva richiesto l’intervento della Corte. La reazione di Israele è stata un mix di diplomazia segreta e ostruzionismo.

I report annuali del dipartimento vantano di aver “identificato i centri di potere all’interno dell’ufficio del procuratore” e tessuto legami con figure chiave, permettendo a Israele di aprire un “dialogo discreto” con l’Aia. Il risultato? Sebbene la CPI abbia infine aperto un’inchiesta nel 2021, Israele è riuscito a ritardare questa decisione di un decennio. “Abbiamo trasformato in modo irrevocabile il modo in cui Israele gestisce le sfide della guerra legale”, si legge nei documenti interni.

Mentre le autorità israeliane si trincerano dietro il silenzio – rifiutando di rispondere alle domande del consorzio investigativo – in patria vige la censura: una legge vieta ai media nazionali di divulgare il contenuto di questa massiccia fuga di notizie, lasciando ai soli osservatori internazionali il compito di svelare l’architettura dell’impunità israeliana.

Ma Israele questa impunità ha evidentemente elaborato strategie e strumenti per imporla di fronte a tutto il consesso internazionale. Se lì è proibito parlare di queste informazioni, alle nostre latitudini invece questi eventi dovrebbero portare a sollevarsi una domanda chiara: fino a che livello si può permettere a uno stato straniero di interferire con uno dei poteri fondativi delle democrazie che tanto vengono difese, almeno a parole, dalla classe dirigente europea? E fino a che punto si può permettere a Israele di violare il diritto internazionale, e anche di sviluppare una strategia di lungo periodo per impedire che i suoi crimini vengano portati in un tribunale?

Pubblicato il: 17/12/2025 da Giacomo Simoncelli