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White Light/White Heat: la carica grezza e anfetaminica del capolavoro dei Velvet Underground

White Light/White Heat: la carica grezza e anfetaminica del capolavoro dei Velvet Underground

White light, White light moved in me through my brain
White light, White light goin’ makin’ you go insane
White heat, Aww white heat it tickle me down to my toes
White light, Aww white light I said now goodness knows

di Skatèna

Il 30 gennaio 1968 i Velvet Underground di Lou Reed rilasciavano il loro secondo grande album White Light/White Heat che non solo segnò il termine della loro collaborazione con Andy Warhol e Nico, ma fu anche l’ultimo che vide la partecipazione dello sperimentatore John Cale.

Filo conduttore del vero capolavoro dei VU, come qualcuno lo ha DEFINITO, è lo stesso che aveva caratterizzato la pop art di Warhol, ovvero l’alienazione dell’uomo nella società moderna, resa palpabile da un sound proto-noise e da una violenza di esecuzione più accentuata rispetto al disco di debutto. I testi, opera di Reed, raccontano di vita e paranoie metropolitane, e sono caratterizzati da descrizioni fredde, asettiche e ripetitive. Il livello qualitativamente basso ed indecente della registrazione, dalla tecnica grezza e satura di suoni potenti, unito alle atmosfere underground e al suono di strumenti atipici per il rock come la viola e l’organo, non fanno altro che potenziare la sensazione di straniamento impostaci  dalla modernità. Lo stesso Cale affermò che mentre l’album d’esordio dei VU era permeato di fragilità e momenti poetici, White Light/White Heat era “consapevolmente un disco duro, anti-bellezza“.

La copertina di White Light White Heat, ideata da Andy Warhol ma realizzata dal fotografo Billy Name, è completamente nera ad eccezione del nome del gruppo e del titolo del disco. Nell’angolo in basso a sinistra vi è un teschio trapassato da un coltello (si trattava di un tatuaggio dell’attore Joe Spencer, che aveva recitato nel film Bike Boy del 1967 di Warhol) stampato con inchiostro nero su sfondo nero.

Di seguito potete ascoltare la title track che inizia con un Lou Reed furioso che pesta il pianoforte “alla Jerry Lee Lewis” e con ritmo ossessivo parla delle sensazioni di luce bianca e calore, anch’esso bianco, date dall’anfetamina:

  • Le immagini meno facili rispetto a quelle del predecessore, l’ambizione maggiore e le soluzioni più estreme lo rendono più alieno, la concisione evita che cada nei difetti più consueti per quelli della sua specie. Se l’esordio era una stanza aperta su agghiaccianti finestre, questo è uno sgabuzzino con una porta che dà su strade fredde e buie, ma allettanti. Se di “The Velvet Underground & Nico” si può essere appagati e soddisfatti, di “White Light/ White Heat” no, mai. Se ne vorrà sempre ancora. (ondarock)

Qui sotto, invece, ho postato un video in cui i VU eseguono White Light White Heat: l’audio è stato estratto dal loro live album del 1969, mentre le immagini sono state registrate alla Factory da Andy Warhol in veste di cameraman:

 

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Pubblicato il: 30/01/2020 da Skatèna