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PUZZLE con GIANLUCA POLVERARI

shellac - crow

PUZZLE con GIANLUCA POLVERARI

In ricordo di Kurt

In ricordo di Kurt

di Davide Calcabrina

L’anima è il corpo, laddove il secondo è fisicamente tenuto insieme dall’epidermide, la prima è tenuta insieme dalla psiche.

Il ragazzino Kurt, quello della Aberdeen degli anni 80, ha sempre cercato di trovare un giusto compromesso tra la sua personalità e il contesto sociale e famigliare in cui era cresciuto; la sua chitarra, potremmo ascoltare migliaia di testimonianze di persone, più o meno famose, che hanno un ricordo di lui con in braccio la sua chitarra, era un’estensione di sé. Quando non poteva suonarla, ne suonava una immaginaria.

Con le mani accordava l’aria.

Cercava in qualche modo di accordare la sua anima sulle note più consone alla sua psiche.

Strumenti.

Una parola troppo fredda per descrivere ciò che rappresentava la chitarra per un empatico come Kurt.
Ma questo sono, sono il tramite attraverso il quale si realizza qualcosa, un “bene strumentale” per l’appunto, ciò che viene prodotto è l’essenza.

La musica di Kurt era la sua essenza.

I Nirvana suonavano come un graffio nella psiche, sapevano farti volare in alto e farti precipitare nel baratro, erano i Beatles e i Rolling Stones senza il patinato e sotto clorpromazina. Un bipolarismo che si adattava non solo a Seattle, a quella Seattle, ma a buona parte di tutta quella generazione e senza che loro potessero saperlo, a buona parte di quelle successive.

Kurt Cobain era questo ma non solo; ma questo, soprattutto questo, era ciò che usciva: un’anima inquieta, tormentata, instabile, violenta e violentata. Così lo vedevano i fan, così lo voleva lo star system.
Sapete, lo star system è come la mente umana, ha bisogno di scorciatoie, di categorie, di etichette e in tutto questo processo, esso, semplifica, sminuisce, ghetizza, prende un qualcosa, lo centrifuga e restituisce all’esterno ciò che vuole, ciò che riesce ad accettare, ciò che crede funzioni. Così. Completamente snaturato.

L’ha sofferta questa cosa, Kurt.

Lui non era un prodotto preconfezionato di Hollywood o di chissà quale altra industria, lui era un signor nessuno che gridava al mondo il suo essere con una capacità artistica che pochi altri hanno avuto e ciò l’ha messo in sintonia con le corde dell’emotività di milioni di persone, prima ancora che di se stesso. Ciò gli ha fatto conquistare il mondo ma non la pace interiore.

Chi lo ha conosciuto davvero – decine, centinaia di libri e interviste lo testimoniano – lo ha sempre ricordato come un ragazzo schietto, trasparente, sensibile ma anche giocoso e ironico all’occorrenza. Odiava apparire come un piagnucolone tormentato e nevrotico. Odiava la superficialità, la banalità.
Il processo che lo portò alla morte, prima mentale e poi fisica, è il processo che negli anni successivi trasmise un’immagine mercificata, semplicistica e banale dell’uomo Kurt Cobain. La stessa immagine che ha, per molti, ancora oggi.

Kurt Cobain era un empatico e sbagliereste qualora credeste che per esprimere se stessi attraverso la musica o qualsiasi forma d’arte, sia necessario esserlo. In realtà tra gli artisti più longevi si denota molto più narcisismo che empatia.

L’empatia di Kurt era pura, genuina. Non poteva essere altrimenti perché era linfa vitale della sua esistenza prima ancora che della sua stessa arte; la si riscontra in maniera paradigmatica proprio nelle sue ultime parole, quelle lasciate sulla lettera scritta al suo amico immaginario Boddah:

“…non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla. Questo mi fa sentire particolarmente colpevole.”

“Il fatto è che non posso imbrogliarvi, nessuno di voi. Semplicemente non sarebbe giusto nei vostri confronti né nei miei. Il peggior crimine che mi possa venire in mente è quello di fingere e far credere che io mi stia divertendo al 100%. A volte mi sento come se dovessi timbrare il cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio potere per apprezzare questo e l’apprezzo, Dio mi sia testimone che l’apprezzo, ma non è abbastanza.”

Kurt Cobain era un empatico, dicevo, dannatamente e meravigliosamente empatico e di tale empatia si può morire.

Alla musica, Kurt, aveva dedicato tutta la sua esistenza che è molto di più che dedicarle la vita.
Dalla musica aveva ricevuto in cambio quel tessuto emotivo che lo metteva in pace con se stesso e in sintonia con gli altri, col mondo. Ma fino ad un certo punto.
Fino a quel giorno in cui ha percepito che di ritorno non riceveva ciò che era ma ciò che gli altri volevano o pensavano che fosse.

Non poteva sopportarlo.

Non lo sopportò più, non oltre quel 5 aprile 1994 dove si tolse la vita e si regalò l’immortalità.

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Pubblicato il: 05/04/2020 da Skatèna