“Techno Purism Can Suck It”: il ritorno della gabber
“Techno Purism Can Suck It”: il ritorno della gabber
di Skatèna
Argomento che avrei voluto trattare da tempo è quello relativo alla subcultura gabber e alla musica ad essa associata (non so se ci avete fatto caso, ma al giorno d’oggi non vi sono più sottoculture degne di nota, indice di un vuoto davvero preoccupante).
Dopo alcune ricerche che ho effettuato, ecco un piccolo sunto di quello che il fenomeno gabber ha rappresentato nella sua epoca d’oro e che continua ad essere al giorno d’oggi.
Alle origini della gabber c’è l’hardcore, che erroneamente si pensa sia nata a Rotterdam negli anni ’90, avendo essa genesi, in realtà, in Germania.
La prima traccia hardcore per antonomasia è stata incisa nel 1989 e pubblicata nel 1990: si tratta della mitica We Have Arrived prodotta dal dj e producer tedesco Marc Trauner sotto lo pseudonimo di Mescalinum United.
Trauner in realtà ha molteplici alias, infatti è conosciuto anche come Marc Acardipane, The Mover, Pilldriver, Marshall Masters e Resident: se provate a farvi un giro su Discogs, scoprirete che quelli che vi ho appena elencato sono solo una minima parte.
Di seguito, un’intevista rilasciata da Marc Acardipane nel 2017:
Da l’indiependente.it ho appreso tante notizie interessanti, di cui ho scelto di riportare quanto segue.
Innanzitutto, la techno hardcore è un genere derivato dalla techno. La sua caratteristica peculiare è la ritmica ossessiva, imperniata sull’utilizzo di una drum machine con un distorsore in grado di generare un’onda quadra con pitch decrescente. L’hardcore primordiale, detta anche early hardcore o oldschool hardcore, si attestava in realtà su una velocità di poco più di 130 bpm ed era molto più lenta e morbida di quella attuale, che parte da circa 175 bpm, fino ad arrivare ad oltre 200 bpm. Ma al di là dei tecnicismi, è interessante osservare come la techno hardcore debba i suoi natali ad una coincidenza di fattori socio-culturali che, trovatisi a coesistere in un particolare momento storico, ne permisero sviluppo e ascesa.
Per poter comprendere appieno questo mondo, bisogna fare un salto indietro nel tempo, per la precisione risalire agli anni ’70, periodo in cui iniziano a comparire segni di musica dance elettronica hard all’interno dell’industrial music. Gruppi come Throbbing Gristle, Cabaret Voltaire, SPK, Fetus, Coil e Einstürzende Neubauten producono sonorità servendosi di un’immensa gamma di strumenti elettronici, il cui messaggio è provocatorio e di denuncia di un disagio.
A metà degli anni ’80, sotto l’egida del gruppo belga Front 242, entra in scena la musica elettronica per il corpo (EBM), un nuovo genere più accessibile e più danzante, ispirato all’industriale e alla new wave. Questo stile è caratterizzato da minimalismo, suoni freddi (a differenza di disco, funk o house) e ritmi potenti, generalmente combinati con vocals aggressivi e un’estetica vicina alla musica industriale, appunto, e al punk. Nel momento in cui l’EBM incontra il new beat, un altro genere belga, e l’acid house, ecco la tavola apparecchiata: ci sono tutti gli ingredienti per l’arrivo dell’hardcore.
Il termine hardcore techno viene utilizzato per la prima volta da gruppi EBM come GRUMH …, Pankow e Leæther Strip alla fine degli anni ’80, sebbene la loro musica non abbia nulla a che vedere con l’hardcore in senso stretto. Il Sucking Energy (Hard Core Mix) dei GRUMH…, pubblicato nel 1985, è stato il primo brano a utilizzare il termine hardcore, all’interno di un contesto EBM.
Ma dove e quando nacque veramente il genere hardcore? Quanto al dove, esiste una doppia teoria. Alcuni sostengono in Germania, altri in Olanda. Ebbene, entrambi i punti di vista sono fondati, a patto che si specifichi di quale tipo di hardcore si stia parlando: nella terra dei tulipani è effettivamente nata quella che oggi è definita Main Style Hardcore, ovvero l’Hardcore “moderna”, mentre l’origine di tutto ciò che ha a che fare con l’Hardcore in senso ampio è indiscutibilmente la Germania. Ed infatti primo pezzo hardcore della storia è ritenuto quel We Have Arrived del teutonico MarcTrauner di cui vi ho parlato supra.
Il dj-producer tedesco, nel frattempo, fonda – questa volta sotto lo pseudonimo Acardipane ed affiancato da un altro nome molto noto nella scena, Miroslav Pajic – l’etichetta Planet Core Productions, che produce in cinque anni qualcosa come 500 brani sul genere. Tra le altre cose, il gruppo PCP rende popolare, contribuendone alla diffusione, una forma di hardcore lenta, pesante, minimale e molto oscura: la darkcore o doomcore.
Il nuovo genere arriva invece in Olanda diffuso da piccole radio pirata che trasmettono i pochi pezzi disponibili in commercio: il primo disco hardcore olandese, pubblicato dalla Rotterdam Records, arriva infatti solo nel 1992. L’album dal titolo “Amsterdam Waar Lech Dat Dan?” è attribuito agli Euromasters, progetto che comprende, tra gli altri, due volti importanti della scena Hardcore dutch: Paul Elstak e Rob Fabrie.
Questo disco è la prova della contrapposizione che c’era ed è tuttora esistente tra Rotterdam e Amsterdam. Nella copertina del vinile è illustrata sulla destra la “strega Euromast”, l’alta torre di Rotterdam che urina su Amsterdam: questo simbolo è stato utilizzato come logo del Parkzicht (il famoso club di Rotterdam dove è stata proposta per la prima volta l’hardcore nei Paesi Bassi).
Altro lavoro degno di nota pubblicato dalla Rotterdam Records è il disco Poing dei Rotterdam Termination Source, una delle prime hit-hardcore a livello europeo, contraddistinta da un effetto digitale di rimbalzo del tipo “boing”.
Sempre da indiependente.it si legge che la techno hardcore, fin dalla nascita, è stata probabilmente l’unico genere musicale di origine elettronica a creare un vero e proprio movimento culturale, al pari del punk o del metal, in sostanza una sorta di genere globale.
Look, tendenze, atmosfere sature e soprattutto una forte vocazione per la sperimentazione hanno facilitato, in un breve lasso temporale, l’”imbastardimento” della matrice originaria, portando allo sviluppo di una sterminata varietà di sottogeneri. A ciascuno di questi corrisponde una precisa area geografica di genesi e crescita e uno specifico segmento di mercato dell’industria musicale dedicata:
La spersonalizzazione è un altro elemento fondamentale all’interno di questa nuova cultura. Da un lato il suono si nutre vorace di un’autocompiaciuta estetica della distorsione e di una tecnologia usata non come mezzo di perfezionamento bensì come fonte di smisurata potenza. La musica è ormai in balia di una insensibilità data dall’indifferenza elettronica con cui l’Hardcore ingloba i suoni di apparecchi non musicali. Il tutto sullo sfondo di paesaggio sonoro di fine millennio inquinato, ibrido e febbrile. D’altronde perché preoccuparsi del confine tra musica e rumore quando la normalità è diventata ballare in vecchie fabbriche, ex magazzini ed ex centrali elettriche? Dall’altro lato c’è l’aspetto del look, mai come ora così uniformato: tutti portano i capelli rasati, ma senza alcuna connotazione politica (nulla a che vedere con le frange skinhead che lo usano come segno di distinzione); tutti indossano tutto, quasi senza un’anima, o forse con una sola anima comune: l’idea di appartenenza ad un qualunque orientamento collegata al modo di vestire, perde ogni senso. Anche le ragazze indossano anfibi e pantaloni trainers: da lontano sembrano corpi tutti uguali con l’unico intento di ballare. Con la velocità sempre più anfetaminica dell’Hardcore, il ballo tende a diventare una serie di convulsi saltelli non molto diverso da quello punk, con la differenza che qui non vi è alcun senso di rabbia a fungere da motore alimentante.
Se la Techno Hardcore è il suono della prima ondata rave nell’europa continentale, in Inghilterra è quello della seconda e i tentativi di reprimerlo sono già abbondantemente iniziati. Con l’incontro tra l’Hardcore e la Techno, l’arrivo in massa del popolo rave è inevitabile, in fuga dagli eventi commerciali: il risultato è uno stravolgimento totale del tradizionale ecosistema dei free festival. Si tratta, come preannunciato, di una nuova alleanza, una nuova era. Nel ‘92 la polizia del distretto di Avon e Somerset si prepara all’operazione Nomad: l’obiettivo è impedire di svolgere lo svolgimento del free festival di Avon che si tiene ogni anno, e le intenzioni paiono serie. Migliaia di mezzi diretti là vengono intercettati e dirottati nelle contee adiacenti, ma la gente si raduna riaggregandosi in una zona di campagna, presso Castlemorton e nel giro di poche ore, senza che la polizia locale faccia in tempo ad organizzarsi per reagire, ha inizio il più grosso rave illegale della storia. Trentamila persone si recano nel posto per un evento che resterà nella coscienza rave globale con il valore di mito di fondazione. A fornire la musica, un collettivo che a sua volta è destinato a rimanere impresso nelle menti: con la loro musica visionaria, gli Spiral Tribe segnano a fondo l’estetica del movimento Rave.
Il rave party si cristallizza in breve come un evento anarchico, allucinato, spartano. Frequentato da giocolieri, mangiatori di fuoco, venditori improvvisati, gente che balla in mezzo alla polvere, cani che scorrazzano, si pone nel mezzo fra un accampamento medievale e uno scenario postbellico. Suggestioni new-age e apocalittiche, un continuo alternarsi tra la forma dell’esserci e quella dello scomparire, una dimensione rituale estrema: sono tutti elementi che contraddistinguono questa nuova forma di aggregazione. La danza come stato di meditazione attiva, bassi elettronici usati come fossero strumenti tribali, c’è qualcosa di sciamanico in tutto ciò. Che l’ambientazione sia rurale o post-industriale, l’atmosfera del rave party è strettamente connessa al suo set: spazi all’aperto, aree naturali, ex hangar: sono sufficienti un paio di pinze e tenaglie per aprire un varco nelle recinzioni e metaforicamente aprire un vuoto al centro della realtà sempre più densa di fine millennio. Il problema non è riempire un posto, infatti, bensì liberarlo. Il free rave party diviene una pratica di occupazione spazio temporale (le feste durano anche giorni) che di fatto occupa un vuoto, salvo poi sparire prima della reazione di autorità e media. La capacità di fluttuare sospesi è tutto ciò che importa: oggi qui, domani chi lo sa.
La macchia si espanda a vista d’occhio. Nel 1994 viene stimato che ogni weekend circa mezzo milione di persone partecipino a un rave in qualche punto del Regno Unito. Tuttavia la storia è destinata ad avere un epilogo: già dopo Castlemorton, il Daily Telegraph invoca a gran voce una nuova legge ed inizia ad essere discusso un nuovo pacchetto di provvedimenti: il Criminal Justice and Public Order, destinato in sostanza a prevedere un sensibile aumento ai poteri della polizia. Riguardo ai rave, in particolare, la nuova legge autorizza le forze dell’ordine a disperdere le persone che preparano, partecipano o semplicemente sono in attesa di un free party, fermare chi vi sia diretto, sequestrare materiale e arrestare gli organizzatori. La clausola più famosa riguarda la definizione di rave come “evento musicale caratterizzato da emissione di repetitive beats”: insomma, per la prima volta nella storia, una forma musicale viene criminalizzata. La vera questione è forse data dal fatto che questo stile di vita entra in contatto con fasce super giovani della popolazione, fungendo da incubatrice sovversiva; così come risulta sempre meno ignorabile il problema del business della droga smerciata ai party. L’iter della legge è costellato di enormi proteste: squatter, gruppi per i diritti civili e frange del movimento rave organizzano marce di protesta. Poi tutto finisce. Il 3 novembre 1994 la legge viene approvata chiudendo per sempre la grande era del rave inglese e la massa ritorna nell’alveo dei club (evolutisi nel frattempo per poter ricreare l’atmosfera rave) e dei party commerciali. La repressione nell’europa continentale tarda solo di qualche anno.
[Fonte: l’indiependente.it]
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E veniamo alla tematica principe di quest’articolo: la subcultura Gabber.
Che derivi da khaver, una parola a sua volta derivante dallo slang olandese Bargoens, o dal termine inglese gab, che indica la chiacchierata nel senso dell’elemento vocal introdotto nelle tracce musicali, Gabber è il nome utilizzato per indicare sia un sottogenere della Techno Hardcore, sia una subcultura giovanile sorta in Europa negli anni ’90.
Le basi del movimento si trovano in Inghilterra all’interno del mondo rave inglese, ma nascita e diffusione avvengono in Olanda, curiosamente in un ambiente collegato al mondo del calcio.
Nel 1988 la scena Acid House inglese diviene popolare in Olanda appena dopo il suo sviluppo nel Regno Unito, e organizzatori di rave (come ad esempio la Sunrise) cominciano ad organizzare party nella città di Amsterdam. La ragione che spinge gli inglesi ad interessarsi ai Paesi Bassi è dovuta in particolare all’attrazione esercitata dalle posizioni più accondiscendenti nei confronti delle droghe e dei permessi per i locali; dall’essere inizialmente festini per sparuti gruppi di avanguardisti, la dimensione cresce a vista d’occhio. Tuttavia si tratta di eventi relativamente esclusivi e la loro crescente popolarità inizia a creare divisioni tra coloro che appartengono alla prima ondata di ravers –i veterani, insomma- e quelli che vengono percepiti come gli ultimi arrivati, accusati di non comprendere lo spirito comunitario del movimento rave e di incoraggiare la violenza all’interno della scena. La stampa, nel tentativo di costruire un capro espiatorio, descrive questi nuovi soggetti come violenti, ineducati, razzisti, omofobi e sessisti, e incapaci di apprezzare la creatività a causa della loro preferenza per un tipo di musica più dura. Inoltre, vengono disprezzati in quanto consumatori, anziché di ecstasy, delle più economiche anfetamine e di grandi quantità di alcool, cosa assai deprecabile per qualunque filosofo del rave. Essi vengono chiamati gabber, attribuendo dunque alla parola una valenza negativa: la leggenda racconta che il termine viene usato per la prima volta al Roxy, un raffinato locale di Amsterdam, dove un giovane raver viene respinto dal buttafuori con la frase “no Gabber, tu non puoi entrare”. Questa storia, reale o meno, è la metafora di ciò che succede tra le classi più basse della società giovanile, che si autoesilia e ghettizza pian piano in una scena a parte, prediligendo una musica più dura.
Dicevamo del collegamento col mondo degli stadi. Effettivamente la musica Gabber si pone fin dagli inizi come un vero e proprio simbolo di opposizione. Che si tratti di antagonismo regionale o di lotta proletaria giovanile contro quelli della capitale, il suono di Rotterdam (è qui che si radica l’epicentro del nuovo movimento culturale) – con un ritmo più incalzante e dei suoni più potenti – si fa portavoce di un movimento di opposizione alla scena house di Amsterdam, considerata più snob e fiacca. Ed è fra gli hooligans delFeyenoord di Rotterdam, la squadra calcistica rivale numero uno dell’Ajax di Amsterdam, che la musica Gabber raggiunge il maggiore successo. Negli anni Novanta, infatti, la famigerata curva De Kuip si riempie di raver in modalità after party, pronti a tifare la loro squadra imbottiti di adrenalina di droghe consumate durante la notte. Così nel 1992, quando dj Paul Elstak, uno dei padri della musica hardcore, incide la traccia (citata in apertura) Amsterdam, waar lech dat dan? su un disco la cui copertina ritraeva la torre Euromast di Rotterdam evidentemente sbronza e nell’atto di urinare sulla città di Amsterdam, gli hooligans non possono perdere l’occasione di trasformare quel brano in un inno, spesso riproposto dal vivo a fine partita.
La nuova musica entra prepotentemente nelle classifiche dei Paesi Bassi, tanto che dalla sua incredibile espansione nascono le cosiddette Merchandise Labels, linee di abbigliamento firmate dalle case discografiche che nel frattempo sono diventate più di 2000 solo a Rotterdam. Anche in questo caso, come in tutto ciò che riguarda la cultura rave hardcore, la spersonalizzazione dell’individuo è tutto, a partire dal look uniformato: tute da ginnastica e polo Australian, Fila o Tacchini, scarpe Nike Air Max, bomber e cappellini appartengono ad entrambi i sessi, mentre l’unico elemento di differenza sta nella rasatura dei capelli: completa per i ragazzi, ai lati o alla nuca con le lunghezze raccolte in code o trecce per le ragazze. Comodità, insomma, soprattutto per ballare la Hakken, una danza velocissima a base di scatti, passi e calci ad un pallone invisibile con tagliuzzamenti dell’aria fatti con le mani, tutto ad un ritmo compreso tra i 160 e i 220 BPM, che immancabilmente richiede il sostegno di sostanze eccitanti.
Confusi con gli Skinhead e spesso associati ad immagini negative legate all’uso massiccio di droghe, ad atti di violenza e razzismo, i Gabber in realtà non abbracciano mai realmente un’ideologia politica. Per loro le feste, la musica, il gruppo rappresentano semplicemente una valvola di sfogo, necessaria per dimenticare i problemi quotidiani, evadendo momentaneamente dalla realtà. I media non ne capiscono lo spirito e, stigmatizzandone la subcultura, ottengono un risultato terribile: sono infatti gli stessi Gabber più “puri”, nel senso dei più vicini ai principi di amicizia e fratellanza espressi dal loro stesso nome, a decidere di abbandonare tutto –nel tentativo di prendere le distanze dalle critiche- alle minoranze più estremiste di destra, note come i Lonsdalers nei Paesi Bassi o i Gabberskin in Francia. Alcune etichette discografiche rispondono alle accuse di razzismo, creando t-shirt e felpe con lo slogan United Hardcore Against Fascism and Racism, ma ormai il declino è inevitabile, tant’è che ad ora i Gabber sono un realtà sostanzialmente estinta. Eppure, i segni di questa subcultura permangono per sempre indelebili. D’altronde uno dei loro motti, estendibile a tutta la cultura Hardcore, ha sempre suonato forte e chiaro: Hardcore ‘Til I Die!
Di seguito, Second Phase – Mentasm, tra i primi pezzi hardcore:
Ma ancor prima di Mentasm, un altro grande classico si era diffuso nella scena dei rave parties europei, Dominator degli Human Resource, le cui sonorità erano ancora molto legate al l’acid-techno.
La gabber approdò poi anche in Italia (divulgata in principio dalle discoteche bresciane, come il Number One). Dai gabber vanno distinti gli Hardcore Warrior, nati tra i frequentatori abituali del Number One, ben prima dell’arrivo della “cultura gabber” in Italia: indossano tute fluorescenti, capelli acconciati con spuntoni e creste multicolori, borchie, zeppe (le Buffalo) e altri accessori e componenti estetiche riprese dallo stile street punk. Dal punk riprendono anche il loro modo di ballare, il c.d. pogo, mentre i gabbers ballano l’hakken (in Italia doppio passo incrociato o passetto).
Qual era la situazione della scena italiana? Il movimento gabber da noi ebbe inizio nel ’92 nelle trasmissioni radio grazie ai djs, come Digital Boy, The Stunned Guys, Walter One e Freddy K (vi ricordate del “manic monday”?), o anche Lancinhouse che portò questa subcultura nelle discoteche come il Number One di Corte Franca (BS).
Ma verso la fine degli anni ’90, mentre la dance prendeva sempre più il sopravvento, gli spazi radiofonici dedicati all’hardcore a poco a poco furono chiusi. Quindi, sempre nel ’99, anno che segnò anche l’inizio della decadenza della commerciale italiana, il movimento gabber conobbe una brusca battuta d’arresto, concretizzatasi con la chiusura del Number One a causa della morte di un ragazzo bresciano causata, si disse, per assunzione di ecstasy.
Qual è la situazione attuale della gabber?
Per scoprirlo, vi invito alla lettura di un articolo di Michelangelo Matos uscito in data 8 luglio 2019 su mixmag.net e che potete leggere nella sua versione originale QUI. La foto che è stata inserita come immagine in evidenza dell’articolo è di Ewen Spencer ed è stata tratta dal THE HARDCORE SOUL BOOK AND MIXTAPE.
Ho provato a tradurre l’articolo e a riportarne i passi che ho ritenuto più significativi: buona lettura!
“IL PURISMO TECHNO PUÒ SUCCHIARLO”: IL RITORNO DELLA GABBER
Il genere di musica dance più hard e più impegnativo sta avendo una rinascita.Ecco i mix – passati e presenti – che spiegano perché
Nel luglio 2013 sono andato al Tomorrowland a Boom, in Belgio.Stavo scrivendo una storia sulla dance music e volevo intervistare Marc Acardipane. Probabilmente il primo artista techno hardcore – il suo brano “We Are Arrived” uscito sotto lo pseudonimo di Mescalinum United è esploso all’epoca come una bomba all’idrogeno (era il 1991) – Acardipane e la sua coorte (la sua etichetta PCP, ed altre come la Mokum e la Rotterdam Records) hanno avuto un impatto particolare sulla scena statunitense del Midwest che mi piacerebbe poter conoscere.
Oggi, l'”EDM” sopravvive principalmente come termine usato da quegli inetti bizzers americani che, dopo tutti questi anni, ancora non riescono a distinguere tra hardcore e deep house con una pistola puntata alle loro teste, mentre l’hardcore olandese, in particolare, prospera di nuovo.La stessa gabber è stata soppiantata da una vera e propria foresta di opzioni, che puoi tutte campionare al Thunderdome, fondato nel 1992, fuori dalle regole del business prima ancora della vendita di ID & T e ripresa in seguito da veri credenti (l’edizione del 2019 si terrà a Utrecht il 26 ottobre).L’hardcore non è mai stata così in vista nei circoli dei clubs fin dagli anni ’90.
Ah, gli anni ’90!Quello che andava contro la gabber è che essa stessa può essere davvero stancante da ascoltare per lunghi periodi di tempo.Ma una manciata di nastri sono, se non proprio easy da ascoltare, almeno un po’ istruttivi. Lenny Dee di Brooklyn ha fondato l’etichetta Industrial Strength, che ha dato alle stampe alcuni tra i dischi fondamentali di musica gabber.Il suo “Live at Universe, Big Love” (agosto 1993) è un vero spettacolo con le sue 31 tracce condensate in 45 minuti, incluse le pause per i soundbites e le chatter MC.Il clou, ovviamente, è costituito dalla sua ‘Fuckin’ Hostile ‘.Il suo “Live At Omen, Frankfurt” (gennaio 1994) è ancora più pazzesco;come dice un’altra delle selections di Dee, “Gabber up your ass!“.
La versione di Dee della West Coast è rappresentata da Ron D Core di Los Angeles, il cui pezzo ‘Angel Of Death‘ (1995) – lato B del mixtape condiviso con Dan Efex – includeva una versione spettrale del tema della canzone Dating Game di Herb Alpert.Il messaggio era chiaro: il purismo techno poteva succhiarlo.
Nell’estate del ’95 la gabber, inaspettatamente, divenne un fenomeno pop, con ‘I Wanna Be a Hippy‘ dei Technohead che rimase al numero 1 in classifica in Olanda per tre settimane, e il fondatore della Rotterdam RecordsPaul Elstak che era andato a Top Of The Pops.
Uno stato d’animo diverso sembra giustificare l’improvvisa rinascita della gabber e dell’hardcore.Persino il mondo della danza odierna è in un mood apocalittico, e con l’EBM , l’industrial, la dark wave, il goth e il noise che si facevano strada nell’universo dei djs, era probabilmente una questione di tempo prima che the techno equivalent of heavy metal si riunisse alla mischia.
A febbraio 2018, Resident Advisor ha pubblicato una storia del Thunderdome accompagnata da un podcast di tre ore (!) di The Outside Agency. A giugno, Alberto Guerrini aka Gabber Eleganza, dj, scrittore ed archivista che risiede a Berlino, ha iniziato uno show mensile su Rinse FM.E questo gennaio, Boiler Room ha iniziato delle hard dance series: il set di FKOFF1963 di San Paolo, in Brasile, è come una falciatrice che ti frantuma il cranio.
Questa ritrovata visibilità vale anche per Acardipane.Il suo album di ritorno alla techno con l’alias di The Mover, “Undetected Act From The Gloom Chamber“, è arrivato nel marzo 2018, e djs come Blawan (Essential Mix, maggio 2018), Helena Hauff (Flow Festival, Helsinki, agosto 2018), Veronica Vasicka (RA.663, febbraio 2019) e Ben Klock (Time Warp, aprile 2019) utilizzano nei loro set le sue tracce.
Ma per ascoltare Marc al suo culmine delirante, vi consiglio di ascoltare il suo set di aprile per l'”Hard Dance NYC: Spinoff Gabber” al Boiler Room.La sua apertura con ‘9mm Is A Classic‘ (di Ace The Space, un altro alias di Acardipane) in ‘We Have Arrived‘, è come un grande abbraccio caloroso che proviene da un vecchio amico, e più tardi annuisce ai suoi coetanei con una sequenza davvero spudorata di ‘Come to Daddy‘ di Aphex Twin, “Feeling So Real” di Moby, “Slaves To The Rave” di Inferno Bros. È davvero immenso. E si scopre che non stava affatto scherzando: HARDCORE WILL NEVER DIE!
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